lunedì 25 luglio 2011

Prologo

Queste dannate carte non vogliono accoppiarsi oggi. Jimbo mi sta già spennando da due ore quando entra lei. Tolgo i piedi dalla scrivania. A Jimbo cade il sigaro dalla bocca, andando a nascondersi sotto il mobiletto del mini bar.

Do un'occhiata a Jimbo. Ci capiamo al volo. Imbraccia la chitarra. Scuoto la testa. Un'altra occhiata. Questa volta capisce ed esce dalla stanza. Non senza dare una lunga occhiata alle sottane della donna.

Solo quando la porta sbatte lei si avvicina a me.
  • Detective Fuffurro?
Ha un fastidioso difetto di pronuncia. Stile palla da tennis in bocca.
  • Ex-detective Jack Sussurro. Ora vendo soprammobili in ceramica a forma di incomprensione.
  • Capifco.
Dice, ma vedo che non capisce a pieno questa scelta. O forse non l'accetta.
  • Chi l'ha mandata qui?
  • Un fuo affezionato cliente. B.N.
Certo, avrei dovuto capirlo subito. Il buon vecchio BN. E' dall'affare Pasquale Coniglio che non sentivo quel nome. Brutto affare.
  • Cosa posso fare per lei? Come ho detto non pratico più, ma potrei consigliarle un ottimo sostituto e...
  • No. Il mio è un cafo che folo lei può rifolvere.
Mi impongo di ignorare tutte le battute sulle persone con la zeppola che conosco.
Si mette comoda. Si slaccia il velo che ha in testa e si siede sulla poltrona di Jimbo. Le pesanti sottane blu a pois sbuffano.
  • Guardi signora, le ho già detto che...
  • Lei fa chi fono io?
  • Si...
  • Allora fa che il mio è un cafo... particolare.
Apro il mini bar e tiro fuori uno Chateau d'Yquem del 1787. Valore approssimativo 56,588 dollari. Chi l'aveva messo là dentro? Mah, un altro maledetto mistero.
Con gesti da femme fatale si gratta la protuberanza che ha sul naso. Un naso considerevole.
  • Ok. Signora Befana, ha la mia attenzione. Qual'è il problema.
  • Mi hanno rubato la fcopa.




venerdì 17 giugno 2011

A Mia Nonna

Figlio dell'America televisiva, i funerali me li sono sempre immaginati sotto la pioggia, facce scure, completi neri e veli sulla testa. Ma al funerale di mia nonna c'era un sole che spaccava le pietre. La cosa è stata così improvvisa che la gente era vestita con jeans e maglietta, tipico abbigliamento da pomeriggio primaverile. 
Dicono che siano i migliori quelli che se ne vanno. Non è vero. La Morte non fa queste distinzioni. Mia nonna non era la migliore. Mia nonna non era perfetta. Ma era mia nonna e io le volevo bene.
E' morta circondata dai paramedici del 118, nel suo letto. Dicono che se ne sia andata senza soffrire, che sembra che dorma.
Io quando sono entrato in quella stanza non la riconoscevo. Troppo piccola, troppo bianca, troppo immobile per essere mia nonna. 
E' successo all'improvviso ma, come dice il grande Leo, ci aveva messo 81 anni a morire. Combatteva una malattia senile simile all'alzheimer, sembrava stesse vincendo. Almeno così mi dicono. Già. Io era tanto che non la vedevo. Tanto che non ricordo l'ultima volta che l'ho vista viva. Tanto che mi aggrappo a quei ricordi di una nonna che faceva le crostate, che mi cantava le preghiere prima di andare a letto. Alla stessa nonna che insultava noi nipoti, tra una frase e l'altra, come il più affettuoso degli intercalari. Una nonna come tante che però qualcosa di speciale doveva averlo per spingermi a scrivere queste righe.
Lascia un marito, due figli e tre nipoti a sei giorni dal suo compleanno. Ma noi sappiamo che non ci lascerà mai.


Ciao Nonna



Valerio

mercoledì 18 maggio 2011

Mentire o sottaceti?

- Secondo te è più grave mentire o sottacere? - disse lei.
- Secondo me so mejo li sottaceti. - rispose lui.
Lei rise di gusto. Lui, ignorante fino a quel momento ignorato, si perse nella verdura del suo sorriso.
Dispersa la comitiva, eran rimasti soli in una macchina dalla tappezzeria scricchiolante, come nemmeno la vecchia nonna Cesira dopo la vendemmia. Lui le aprì la portiera tenendo in mano la gomma della guarnizione. Lei scese con un accavallata di gambe degna di Sharon Stone. Il cuore di lui perse un colpo. Dalla panchina dominavano il campo di lucciole che era la città di notte. Le note del più romantico tunz tunz come colonna sonora. Complimenti audaci li spinsero ad ardenti baci. Lui le disse di stare perdendosi nei suoi occhi , lei non disse di stare perdendo Grey's Anatomy. Sudore, mal di schiena e il salto dopo la rincorsa. Ebbe più vita la sigaretta della vittoria. Una breve occhiata alle lucciole della città, poi nella vecchia Cesira. Incastrata tra un deludente e un presente conta i lampioni nella sua notte da campioni. Lui le offrì una mentina, residuato bellico di altri raid d'amore. Il portone come un miraggio. Note di Bambolina e Barracuda.
- Sai che mica l'ho capita quella cosa delle mentine e de li sottaceti? - Ammise lui.

lunedì 18 aprile 2011

Freak 'N' Chips

- tratto dalla rivista mensile di musica HotHat, numero del 14/3000






Atterrano sulla scena musicale galattica i membri di questa nuova, e sconosciuta ai più, boy band. O quasi. Nel senso che non sono propriamente ragazzi. Ebbene si. Freaks! Ecco cosa sono. Ognuno ha subito una particolare mutazione ì. I più bacchettoni storceranno il naso ma, vi assicuro che il loro aspetto è più un dono del cielo che una maledizione del nucleare!
Andiamo ora a presentarli.

Jack "Jackie" Jackerson è il volto del gruppo. Le sue due bocche gli danno la possibilità di creare impareggiabili duetti solisti, destinati a fare storia.
Alla chitarra, o sarebbe meglio dire E' la chitarra, Al Johnson. Gli è stata impiantata una chitarra Wesdroom 756 al posto del braccio mancante e... non ce lo fa proprio rimpiangere!
Alle percussioni, alle tastiere e al mix "Dock Oc" ci stupisce sempre con i suoi otto tentacoli scatenati.
Al basso, il Basso, un metro e cinque di puro talento.

Impegnati anche nel sociale, i Freak, sono in prima linea nella lotta per la Rivendicazione dei Mutanti.
Se già il loro aspetto non vi ha invogliato a comprare i loro dischi, beccatevi allora questa recensione del loro ultimo album.

-Sbullonami il Cuore-

Mescolando le impareggiabili doti liriche di Jackie Johnson ai suoi psico-elettronici della band, i Freak 'N' Chips ci regalano ventidue minuti di fuga dalla realtà. L'album gode della spinta data dal singolo "Cacciavite in un occhio", uscito sulla Rete tre giorni fa e che ha già raggiunto un miliardo e trecentomila click.

sabato 9 aprile 2011

T-Rex

Fa freddo.
L'insegna al neon mi spara in faccia dodici gradazioni diverse di rosso, mentre la pioggia picchietta sulla tettoia sotto la quale mi sono riparato. Mi sono inzuppato fino alle ossa per arrivare fin qui. Questo fottuto posto è il buco del culo del mondo. Il Geyser è uno dei locali più in voga del momento tra i fighetti figli di papà in cerca di emozioni forti. A me sembrano tutti uguali.
Lo scimmione all'entrata si sta vantando delle sue nuove braccia policromate con un gruppo di sgallettate, minorenni che si danno l'aria da puttanoni navigati. Ogni tanto la porta si apre facendo fuoriuscire stralci di luci stroboscopiche, avanzi di musica commerciale e qualche ospite indesiderato. Vedo le ragazzine ridere mentre il pugno dello scimmione si abbatte sulla bocca dell'ubriaco di turno. Il rumore è agghiacciante. L'uomo sputa grumi di sangue e piccoli frammenti colorati. I denti. Resta lì, accasciato, mentre la pioggia si porta via un fiume rosso sangue.
Mentre aspetto butto giù un paio di pillole blu. Anfetamine. Frank, il medico del Trauma Team del quartiere indojamaicano, mi passa regolarmente le pasticche requisite ai ragazzini giù nello Sprawl.
Doppia buona azione.
Quando l'orologio digitale impiantato sulla schiena di un tizio, tra quello che sembra il tatuaggio di un drago meccanico e una spessa cicatrice violacea, segna le 4.23, vedo uscire il mio uomo. Butto la sigaretta. Lo stronzo gira scortato da due giganti, gemelli. Cloni. Indossa pantaloni di pelle verdi e un ributtante impermeabile rosa shocking che lascia intravedere i muscoli artificiali scolpiti dalla chirurgia. Faccio scrocchiare le nocche. Il familiare rumore metallico è un avvertimento per chiunque mi stia vicino. Mi nascondo la faccia nel bavero della giacca e li segua a distanza. Destra, sinistra, nel vicolo.
Camminano per dieci minuti buoni infischiandosene della pioggia battente. Non si sono voltati nemmeno una volta, che guardie di merda. Basta un cannone sotto la camicia per farli sentire sto cazzo. Guadagno metri.
Mr Tobaiashi, si fermi, Polizia di MirrorCity. Devo urlare per farmi sentire sopra il concerto di pioggia e rumori della città. Il gruppo si ferma, si volta. La piccola checca gialla mi guarda con aria di sfida. Non mi ha riconosciuto.
Estraggo il ferro, uno Streetmaster made in Hong Kong, e faccio saltare il ginocchio del gigante alla mia destra. Non gli do il tempo di crollare a terra e sparo un colpo a bruciapelo al gemello che mi si sta scagliando contro. Il proiettile ferma la sua corsa sul corpetto corazzato. Lo stronzo crolla a terra bestemmiando qualche dio samoano. Sarà ancora vivo ma un colpo da quella distanza lo terrà a letto una settimana.
Le urla dei due cloni riempiono il vicolo. Mi godo la smorfia su quel muso da scimmia gialla quando capisce chi sono. Il mix di violenza e anfetamine mi fa schizzare l'adrenalina a mille.
Scimmiotta qualcosa in quella sua lingua del cazzo. Dio quanto odio questi fottuti gialli. Mi paro di fronte a lui. Cerca di comporre qualche numero sul suo palmare nel braccio. Scuoto la testa con fare intimidatorio. Lui capisce e blocca la mano a metà del gesto.
Sollevo le mani e con studiata lentezza mi sfilo i guanti, mostrandogli le nocche rinforzate, ricordo di quella notte di cinque anni fa.
F-fermo. T-ti posso pagare delle mani nuove. Eh? Che ne dici?
Calmo. Lascialo parlare.
L-lo sai anche tu che erano solo affari. Non è stata una mia decisione. Mi hai costretto con quei tuoi modi da irlandese pazzo.
Silenzio.
Ti bastava perdere un incontro. Un incontro solo. Niente di più. Invece tu te ne sei uscito con quella storia di T-Rex, e la tua media di incontri.
Lascialo parlare.
Ora la checca ti guarda in faccia, sta riprendendo un po' di coraggio.
Non ti conviene uccidermi. Sai chi sono io. Sai CHI c'è dietro di me!
Lo stronzetto si è messo a urlare.
Non lo farei se fossi in te, irlandese!
Ora. Colpiscilo.
Carico il colpo e abbasso il braccio. Metallo contro ossa, tendini, muscoli. Sono una macchina. Alzo, carico e abbasso il braccio. Un maglio che batte sul ferro caldo e sanguinolento che è la sua faccia. Alzo, carico e abbasso il braccio. Non so perché ma mentre lo colpisco meccanicamente mi torna in mente mio padre. Un odore acre. Lo stronzo se l'è fatta sotto. Smetto solo quando sono certo che neanche la madre possa riconoscerlo.
Lo lascio svenuto per terra. Mi pulisco le mani su quel fottuto impermeabile dal colore orrendo. Rosa shocking. Per dio, il buon gusto è davvero morto in questa città?
Sputo per terra e me ne vado stringendomi nella giacca.
Con tutti soldi che ha, domani, quando si sarà svegliato, avrà una faccia nuova e sarà imbottito di antidolorifici. Domani gli scimmioni si andranno ad aggiungere alla lista di nemici che ogni buon poliziotto ha. Domani probabilmente la Yakuza mi vorrà morto. Ma a me non me ne frega un cazzo perché domani è un altro giorno.

mercoledì 30 marzo 2011

La Morte o Giù di Lì

Din Don.

- Si, chi è?
- Salve, sono la Morte. Ci siamo sentiti qualche giorno fa per telefono, si ricorda?
- Oh, certo certo. Venga pure dentro. Le posso offrire qualcosa? Un the? Un gingerino?
- No, grazie. Non bevo mai quando sono in servizio.
- Si accomodi, prego. Non faccia caso al disordine. Non mi aspettavo una visita così presto.
- Lo so e mi scuso per essere capitato qui all'improvviso, ma avevo un lavoro da queste parti e ne ho approfittato per risparmiare tempo.
- Ah, e che lavoro fa? Oh, che sciocca...
- Sa che le dico? Un the lo prendo volentieri.

- Ecco qui. Ci vuole latte o limone?
- Una goccia di limone, grazie.
- Zucchero?
- Due cucchiaini.
- Bene. Se posso fare altro.
- Ben gentile ma il the va benissimo. Parlando di cose serie: è pronta?
- Lei è una che va subito al sodo. Che posso dirle? Si è mai veramente pronti? Penso di sì. Cioè, non ho conti in sospeso con nessuno, non ho debiti da pagare né crediti da riscuotere. Ho detto a tutti che sarei partita per un lungo viaggio, ma non è che mi senta entusiasta.
- Capisco. Ha ancora qualcosa da fare.
- Non in particolare. Ma ci sarebbero un sacco di cose. Vedere posti, conoscere persone.
- Suo figlio?
- Lui sa cosa fare quando non ci sarò più. Ho lasciato tutto scritto, comunque.
- E suo padre?
- Come fa a..? Mi scusi, a volte dimentico con chi sto parlando. Sarà il vestito. Ma sa che tutti i film e i quadri non le rendono giustizia? Mi son sempre chiesta il perché del saio nero.
- Cosa le posso dire? Non sarebbe la stessa cosa se sapessero che indosso un Antonio Riva o che vado in giro in Mini Cooper. Perderei, diciamo, credibilità. Le posso assicurare che però ho licenziato il mio PR del medioevo.
- Non ha nemmeno la falce.
- Non è propriamente la cosa più comoda del mondo da portarsi dietro. E poi la trovo anacronistica.
E non si abbina alle mie scarpe. Eh eh.
- Ahaha.
- Tornando a suo padre. Ho letto sul suo fascicolo che non vi vedete da ventotto anni.
- Si...
- Non ne vuole parlare?
- Non c'è molto da dire. Se ne andò quando avevo 6 anni, lasciando mia madre nella merda. Oh, mi scusi.
- Si figuri, quando ci vuole ci vuole.
- ... nella povertà più assoluta, dicevamo. Quando ho provato a ricontattarlo a diciotto anni, ho scoperto che aveva un'altra famiglia. Un'altra donna e altri due figli. Non ce la facevo proprio a vederli tutti felici, quando noi avevamo passato le pene dell'inferno. Immagino lei sa di cosa parlo.
- Più o meno. Anche se io non ho molto a che fare con quel ramo dell'azienda.
- Beh, comunque ha provato a contattarmi un paio di volte ma io non volevo vederlo. Da anni oramai non ho più notizie di lui.
- ...Non dovrei darle questa informazione ma posso dirle che non se la passa un granché. Aspetti che guardo sul cellulare. O..P...Q...R. Eccolo qui. Romoli. Mario, vero.
- Si.
- E' in Madagascar con una brutta brutta febbre.
- No.
- Lo vuole sentire?
- Posso?
- Ormai le regole le ho infrante. Intanto andrei un attimo in bagno.
- La seconda porta a destra e...grazie.

Tuu.Tuu.Tuu.

- Pronto?
- Papà?
- Carla?
- Si.
- Sei davvero tu?
- Si.
- Ma come...? Non importa. Dimmi.
- Stai bene?
-....
- Papà?
- Si, sto bene. Non ti preoccupare. Giusto un po' di febbre ma passerà. Coff, coff. Coff.
- Tutto ok.
- Si, è passato.
- Papà perché te ne sei andato? Perché ci hai lasciate?
- Carla, non piangere.
- Perché non sei tornato?
- ....
- Perché?
- Carla non è colpa tua. Coff coff. Ora posso dirtelo: tua madre mi tradiva.
- Mamma? Non ci credo. Con chi?
- Un suo collega dell'ufficio. Non avevo il coraggio di dirtelo e non volevo rovinare il rapporto che avevi con lei.
- Ma, ma...io non ne ho saputo mai nulla.
- Abbiamo deciso che era meglio così. Con volevamo farti pressioni in quella che era una situazione difficile.

[...]

- Grazie. Grazie ancora.
- Niente di che. Tenga un fazzoletto. Ora è pronta?
- P-penso di si.
- Bene. Si è preparata un bagaglio leggero come le avevo detto?
- Si. Ecco qui la borsa.
- Benissimo. Guardi io ho ancora da fare per una mezz'oretta qui in zona. Le dispiace se la passo prendere tra un po'?
- Non c'è problema.
- Perfetto. Allora a dopo. Arrivederci.
- Arrivederci.

Slam.



domenica 27 febbraio 2011

Delirando



Entro nella stanza. Buio. Accendo l'interruttore e un fascio di luce si propaga rivelando una stanza sporca, polverosa e umida. Insomma uguale a camera mia. Un pezzo di stoffa entra nel cono di luce per poi scomparire subito.

-Chiudi la luce!
-Si dice spegni.
-Ah...hai ragione. Vabbè, vabbè spegnila, spegnila!

Una voce gracchiante, come artigli sulla pera. Vengo scosso da un brivido. Mi era finito un cubetto di ghiaccio nei pantaloni. Obbedìsco a quella voce che non ammette repliche in seconda serata e facco scattare l'interruttore. Cerco di percepire la presenza nella camera con gli altri sensi ma non ci riesco. Forse se ne è andato. Non sapendo cosa fare, nervoso, faccio una puzzetta. Dopo alcuni secondi un odore nauseabondo riempe il locale.

-Puah! Che schifo. Ma che sei, malato? Siediti per dio e lascia un po' la porta aperta.

Di nuovo la voce gracchiante. Ancora indeciso rimango immobile.

-Davanti a te c'è una sedia, deficiente. Dio mio, non riesco a respirare.

Allungo una mano ma non trovo niente, allora faccio pochi passi. Entro in contatto con qualcosa di duro, sposto la sedia e mi siedo al tavolino, a disagio. Improvvisamente un soffio di vento, una brezza leggera sposta l'orribile tanfo e, praticamente nello stesso momento, una candela si accende sul tavolino. Chiudo gli occhi accecato dalla luce improvvisa e in quel momento di buio una fragranza a me sconosciuta mi pizzica il naso. Sa di cacca sotto un pino. Stordito, lascio che i miei occhi si abituino alla luce. Dalla parte opposta del tavolino vedo una sagoma, anch'essa seduta. O svenuta. Per quanto sforzi la mia vista non riesco a distinguere nulla più che un'ombra.
Passiamo alcuni minuti in un imbarazzante silenzio, almeno da parte mia. Quello deve essere l'uomo che mi hanno raccomandato, l'assassino. Non so come sia arrivato fino a questo punto ma, a questo punto non si torna indietro. Comincio a spazientirmi, mi sto per alzare quando mi raggiunge la voce dell'assassino.

-Chi è l'obiettivo?

Il sudore mi fa scivolare le mani. Le raccolgo. 

-Grendel la Pornostar.

Faccio un respiro profondo. La puzza è insopportabile.

-Vuoi che lo faccia in qualche modo particolare? Che riceva qualche messaggio prima di morire? Che sembri un incidente?

Scuoto la testa. Probabilmente non mi può vedere... anche se non ne son sicuro.

-No. Niente di particolare. Cioè se sembrasse un incidente sarebbe meglio. Non lo so, un coltello nella schiena, un alligatore nel letto.

Non riesco a smettere di pensare a i cavoletti di bruxelles..

-Sai qual'è il compenso?

-Si, ecco qui. Pagamento anticipato.

Detto questo, tiro fuori la carta di credito, i risparmi di una vita, e la poggio sul tavolo. Una mano tasta alla cieca sul tavolo e veloce, dopo un paio di minuti, con mano arcigna fa sparire l'onorario.
Rimango con le mani intrecciate, aspettando di essere congedato. Una vampata parte dalla colonnina di cera al centro del tavolino, abbagliandomi. Istintivamente proteggo il viso con le mani; quando le scanso la puzza è andata. Sono da solo nella stanza, dell'altro uomo non c'è traccia. Tranne il simpatico usciere che mi accompagna fuori. Lentamente mi alzo e mi avvio verso l'uscita con la mente piena di dubbi su questi maledetti cavoletti di bruxelles.



Sono impazzito...?


Mago Vendis



Eccolo lì.
Pallido riflesso del mitico mago Guarda. Piazza Navona è il suo palco. Un palco di serie B rispetto al tmepio che è Trilussa.
Eccolo lì.
Illusionista senza illusioni, con due matrimoni alle spalle. Un "no" uscito troppo forte davanti all'altare. Una passione troppo debole per il posto fisso.
Eccolo lì.
Il Dieci di denara fa di lui un cartomante di tutto rispetto; la carta dell'Imperatore fa di lui un indovino infallibile. Insieme una bella scopa non gliela toglie nessuno.
Eccolo lì.
Doppiatore bollito, ignorante incallito. Con più tic di un orologio rotto e con una cultura da wikipedia ad arginare la sconfitta.
Eccolo lì.

venerdì 4 febbraio 2011

Redstar

Tlick.
Lentamente il registratore si mette in moto. Le bobine prendono maggiore velocità producendo un rumore gracchiante ad ogni loro giro. Una voce esce dalla cassa audio.

- Soggetto DH30045, nome in codice Redstar. Cominciamo.

Subito un'altra voce, più decisa, potente e giovane si rivolge al microfono.

- Il mio nome in codice è Redstar ma il mio vero nome è Arthur Dipler. Sono un avventuriero e membro attivo del Dipartimento H.
Sono nato l'11 maggio del 1911 a Portland. All'età di 3 anni mi son trasferito a Columbia, in South Carolina e... Vado bene così?

- Si, si, continua pure.

- La mia era, è, una famiglia benestante. Mio padre, William, è uno scrittore di successo e si è sempre preso cura di tutta la famiglia. Posso dire di aver avuto un'infanzia felice dopotutto. Ho frequentato la Columbia High School. Ho subito dimostrato una spiccata propensione per le materie umanistiche: letteratura, storia, filosofia, diritto. Studiavo molto ma non facevo solo quello. Ero anche un appassionato membro della squadra di nuoto ma, nonostante i miei sforzi non sono riuscito mai a spiccare. Ho partecipato ad alcune gare, senza però raggiungere traguardi notevoli, tranne un secondo posto al campionato statale del '27.
Dopo essermi diplomato a pieni voti mi sono trasferito in Massachusetts alla Harvard University, con la benedizione dei miei, e mi sono iscritto alla facoltà di Legge.
Ho trascorso alcuni dei migliori anni della mia vita in quella università. Qui ho trovato amici fidati, un mentore e futuri colleghi molto competenti. E Catherine.

Una pausa. Lunga. Dolorosa.
Studiava anche lei legge, era un anno avanti a me. La conobbi ad una festa organizzata dalla sua Sorellanza, a cui partecipava la mia Confraternita. Abbiamo cominciato a frequentarci e già dopo due settimane facevamo coppia fissa. Poi la mia vita è decollata. Ci siamo laureati, sposati e abbiamo aperto uno studio legale nostro, il Dipler&Elliot, a Boston. Per questo devo ingraziare i nostri genitori, che ci hanno sempre appoggiato, moralmente e economicamente.
Dopo nove mesi il Cielo ci ha benedetto con una bellissima bambina.

Un'altra pausa, questa volta più lunga.

- Se la sente di continuare?

- Si, si. E' solo il passato.
...una bellissima bambina, Sophie. Sophie era tutto per noi. Eravamo una famiglia felice. Quelli sono stati i tre anni migliori della mia vita. Poi è arrivato Bayne.

La voce si fa più dura.

Travor Bayne era un pazzo. 19 luglio 1938, Boston. Io ero al lavoro in ufficio, il caso Peterson. Non lo scorderò mai. La mia cliente, Martha Peterson, era stata vittima di una truffa. Non un caso difficile, le prove erano chiare. Cat era in centro con Sophie per comprarle un vestitino. Si erano fermate alla tavola calda per mangiare, quando Bayne è entrato e ha cominciato a sparare sugli avventori. Tredici morti e sei feriti.
E poi si dileguò.
Ero disperato quando mi arrivò la notizia. MI crollò il mondo addosso. Ho passato una settimana chiuso in casa, a piangere e a bere.
Dopo la fase dell'autodistruzione ho passato la fase della rabbia. Passavo quasi tutti i giorni i palestra, tra pesi e kick-boxing. Trascuravo il lavoro, ero sparito per amici e parenti. Mi chiusi in me stesso.
Passavano i mesi e la polizia brancolava nel buio. Bayne sembrava sparito nel nulla.
Ho cominciato a girare di notte, nei quartieri malfamati, per cercare Bayne. Ho riscosso alcuni vecchi favori dalla polizia, ho pestato gente. Spacciatori, ladri, qualche assassino. Ma Byrne non si trovava.
Finalmente un giorno la polizia mi chiamò e mi disse di aver trovato Byrne, morto. A quel punto è scattato qualcosa. Ho indossato questa maschera e sono diventato il giustiziere di Boston. O almeno è quello che di cui cerco di convincermi, ogni volta che esco di notte. Ho ripreso il mio lavoro e ho anche una normale vita diurna, fatta di amici e persone amate.
Poi qualche mese fa, prima dello scoppio della Grande Guerra, ho sentito alla radio il programma di reclutamento del Dipartimento H.
Mi avete dato un costume, delle armi, un addestramento. Mi avete dato un nome di battaglia e, cosa più importante... uno scopo.

Il registratore si spegne. Mani si stringono. Gli uomini si allontanano tutti dalla sala. Tutti tranne lui. Lui è rimasto. Mani giunte sul tavolo, scavare nei ricordi ha riaperto una vecchia ferita. Una cosa non ha detto ai suoi esaminatori. Una quattordicesima persona morì a Boston, ci fu un'altra vittima. Lui. Quel giorno morì insieme a sua figlia e a sua moglie e niente, NIENTE, lo potrebbe convincere del contrario. Quando sentì quel proclama alla radio non pensò alla guerra, alla patria o ad altro, e non era vero che il Dipartimento H gli aveva dato uno scopo. Uno scopo lo aveva già: raggiungere i suoi cari. Il Project HOPE gli dava solo l'occasione di farlo tentando di compiere qualcosa di giusto. 

sabato 29 gennaio 2011

Sabbia e Segreti

UOMO

Entro nella stanza. Buio. Apro lo spioncino della lanterna schermabile e un fascio di luce si propaga rivelando una stanza sporca, polverosa e umida. Un pezzo di stoffa entra nel cono di luce per poi scomparire subito.

-Chiudi la lampada.

Una voce gracchiante, come artigli sulla pietra. Vengo scosso da un brivido. Obbedìsco a quella voce che non ammette repliche e chiudo lo sportelletto in metallo. Ora la luce soffusa fatica a penetrare il muro delle tenebre, lasciandomi quasi cieco. Cerco di percepire la presenza nella camera con gli altri sensi ma non ci riesco. Non sapendo cosa fare, nervoso, sposto il peso da un piede all'altro.

-Siediti.

Di nuovo la voce gracchiante. Ancora indeciso rimango immobile.

-Davanti a te c'è una sedia.

Allungo una mano ma non trovo niente, allora faccio pochi passi. Entro in contatto con qualcosa di duro, sposto la sedia e mi siedo al tavolino, a disagio. Improvvisamente un soffio di vento, una brezza leggera spegne la lanterna e, praticamente nello stesso momento, una candela si accende sul tavolino. Chiudo gli occhi accecato dalla luce improvvisa e in quel momento di buio una fragranza a me sconosciuta mi pizzica il naso. Stordito, lascio che i miei occhi si abituino alla luce. Dalla parte opposta del tavolino vedo una sagoma, anch'essa seduta. Per quanto sforzi la mia vista non riesco a distinguere nulla più che un'ombra.
Passiamo alcuni minuti in un imbarazzante silenzio, almeno da parte mia. Quello deve essere l'uomo che mi hanno raccomandato, l'assassino. Non so come sia arrivato fino a questo punto ma, a questo punto non si torna indietro. Comincio a spazientirmi, mi sto per alzare quando mi raggiunge la voce dell'assassino.

-Chi è l'obiettivo?

Ho le mani sudate, non pensavo sarei arrivato a tanto.

-Grendel il Mercante.

Faccio un respiro profondo.

-Vuoi che lo faccia in qualche modo particolare? Che riceva qualche messaggio prima di morire? Che sembri un incidente?

Scuoto la testa. Probabilmente non mi può vedere... anche se non ne son sicuro.

-N-no. Niente di particolare. C-cioè se sembrasse un incidente sarebbe meglio.

Non riesco a smettere di esitare.

-Sai qual'è il compenso?

-S-si, ecco qui. Pagamento anticipato.

Detto questo, tiro fuori il sacchetto con le monete d'argento, i risparmi di una vita, e lo poggio sul tavolo. Una mano entra nel cono di luce e veloce con mano arcigna fa sparire l'onorario.
Rimango con le mani intrecciate, aspettando di essere congedato. Una vampata parte dalla colonnina di cera al centro del tavolino, abbagliandomi. Istintivamente proteggo il viso con le mani; quando le scanso è di nuovo buio. Aspetto qualche attimo poi accendo nuovamente la lanterna. Sono da solo nella stanza, dell'altro uomo non c'è traccia. Lentamente mi alzo e mi avvio verso l'uscita con la mente piena di dubbi.

RUBINO

L'aria della notte mi accarezza la pelle penetrando nei polmoni, dandomi una sensazione di sollievo dopo il soffocante incenso della stanza. Sento il rigonfiamento del sacchetto pieno di monete spingere contro il mio petto all'altezza del cuore. Una sagoma, che altri non può essere che Smeraldo, mi aspetta poggiata con la schiena ad un caminetto. Si alza il vento proveniente dal mare, nubi cariche di pioggia si spostano sopra la città. Mi fermo davanti a lei con il vento che fa oscillare i drappi del mio cappuccio. Le lancio il sacchetto che lei afferra al volo. Dopo averlo osservato per qualche istante, come a studiarlo, me lo lancia indietro.

-Te li devi ancora guadagnare, ma d'ora in poi i soldi dei tuoi incarichi saranno solo tuoi... Rubino.

Le mie dita si stringono intorno al sacchetto, rapaci, mentre il mio cuore manca un colpo. Rubino. Perfino io capisco che questo nome non viene dato a tutti. Rubino. E così sia!


TO BE CONTINUED...?

Sabbia e Sudore

… L'ho trovato! Si è infilato in un magazzino di Cantus, a detta delle mie fonti, vuoto. E' passato quasi un anno da quando ho lasciato il porto di Amoq, Baker, Sim, quella che consideravo la mia casa, per cominciare le mie ricerche. Per andare dietro a lui. Lo avevo quasi beccato a Tulimport. Se solo la pioggia non avesse coperto le tracce in quei vicoli bui. Per non parlare della volta sui canali di Emmath. Se l'era cavata solo grazie al passaggio di quella chiatta. Indubbiamente aveva del fegato: buttarsi da un'altezza di trenta metri e atterrare sul telone di una barca non è da tutti. Ma ora è qui e non voglio lasciarlo scappare.

Qualcuno mi serra la bocca impedendomi di muovere la testa. La mia mano corre veloce alla cintura quando il freddo contatto di un coltello sulla pelle del mio collo mi invita a fermarmi. Il cuore mi scoppia nel petto pompando il sangue che, come un tamburo, mi martella nelle orecchie. Mi sento completamente inerme e ancor più bruciante è la consapevolezza di essermi fatto cogliere così di sorpresa. E io che mi credevo uno furbo!
Lentamente la stretta intorno alla mia bocca si allenta, ma sento ancora il morso del freddo acciaio. Una voce gracchiante, come artigli su pietra, mi apostrofa:

-Perché continui a seguirmi, ragazzino?

Mi spinge in avanti e, per quanto libero dalla minaccia del pugnale, continua a tenermi sott'occhio. Il mio stupore raggiunge il suo apice quando guardo il mio assalitore, l'uomo con il turbante, la mia preda. Ora mi domando chi fosse la preda e chi il cacciatore. Si muove in maniera sinuosa e i suoi occhi mi squadrano, studiando ogni mia mossa. Ripete la sua domanda:

-Perché mi segui, Ur?

Mi si gela il sangue nelle vene. Come fa a conoscere il mio nome? Istintivamente faccio un passo indietro.

-Pensavi che nessuno si accorgesse di te? E' dal giorno della Fiera ad Amoq che mi stai dietro, quasi un anno.

Assume una posa più rilassata come se non fossi una minaccia. Ha ragione. E' evidente che non possa essere una minaccia per lui.
Giù in strada un rumore di passi. Uomini armati. Un guizzo passa nei suoi occhi come se stesse soppesando qualcosa. Morirò qui, lo so. Raddrizzo la schiena e mi preparo al suo colpo, conscio del fatto che non posso sfuggirgli.

-No! Non mi arrenderò così. Anche se non ci sarà partita, combatterò fino alla fine. Che abbia un po' da penare!

Le guardie si stanno avvicinando. Improvvisamente mi fa un cenno con la mano, mi invita a seguirlo. Con la sua solita velocità, velocità che mi colpì subito appena lo vidi e che ho potuto apprezzare maggiormente durante la mia Cerca, si volta e si dirige su per la grondaia. Ha movimenti da ragno, mentre io faccio fatica a superare il muro sopra di noi. Cominciamo un lungo percorso per i tetti della città. Dentro e fuori case di sconosciuti, sopra e sotto archi, porte e scale. Un labirinto fatto di tegole, comignoli, pietre e mattoni. In silenzio. Mai una parola, mai un sussurro, solo cenni. Fermati, andiamo, nasconditi, fermati di nuovo. Passiamo più di un'ora in giro fin quando non arriviamo in un piccolo magazzino male illuminato.
Qui mi invita a sedermi su una cassa chiusa e dopo essersi accomodato si ferma a guardarmi. Comincia a parlare e a liberarsi il viso dal turbante bianco. Una voce che non avevo mai sentito. Una voce diversa da quella gracchiante e aspra che mi apostrofava fino ad un'ora fa.

-Bene. Te la sei cavata bene. Non eccellente ma buono. Senza contare che sei riuscito a seguirmi fino a qui da Amoq, superando varie prove che ti avevo messo sulla strada.
So perché mi hai seguito, anche io ero come te. Bada, ti farò questa offerta solo una volta. Vuoi che sia la tua Guida?

Rimango a bocca aperta. E non solo perché la persona che ho seguito per quasi un anno è una donna, bellissima per giunta, ma perché finalmente ero arrivato alla fine del mio viaggio. Ce l'avevo fatta!
Ancora troppo emozionato per parlare vedo che lei, lui...lei sta aspettando una mia risposta. L'unica cosa che riesco a fare è annuire.
Si alza con la sua solita leggerezza e comincia a girarmi intorno.

-Dovrò lavorarci su, sei ancora una pietra grezza ma vedo in te le potenzialità per risplendere.

Mi sento lusingato e un po' impaurito dalle sue attenzioni. Si ferma davanti al mio viso e mi porge una mano.

-Puoi chiamarmi Smeraldo.

Stringo la sua mano coperta dal guanto, deglutendo vistosamente. Lei sorride, un sorriso di scherno che mi fa ancora più arrossire, si volta e, dopo essersi rimessa il turbante, si avvia verso una porta della stanza.

-Ci siamo riposati abbastanza. Seguimi.

Io mi affretto dietro di lei. Sto fantasticando su mille avventure quando una domanda si forma improvvisa nella mia mente:

-Cosa diamine è una Guida?


TO BE CONTINUED...

Sabbia


Il vento spazza la sabbia sputandomi in faccia i granelli sferzanti. In città è giorno di fiera e le strade sono gremite di gente, bestie e merci. Profumi di spezie e cibi cotti sulle grate roventi si alternano alle folate di vento cariche di sabbia.
Mi dirigo alla Piazza del Porto, sede del palco delle aste, dove i ricchi mercanti vendono le loro merci: mandrie intere di pregiato bestiame, navi appena varate, schiavi...
In fondo sono fortunato. Meglio essere un trovatello che uno schiavo. E poi non mi va così male. Con Baker e Sim riusciamo a procurarci quel che ci serve, rubacchiando qua e là, e ogni tanto ci dà una mano la gente del quartiere: un avanzo dal macellaio dell'angolo, un po' di legna dal carbonaio Mert, anche se bagnata, il permesso di dormire nel magazzino dell'armatore. E noi in cambio facciamo loro qualche lavoretto, qualcuno pulito, qualcuno un po' meno. Così va la vita.
Mentre son perso nei miei pensieri mi ritrovo in piazza. Il banditore, un uomo ben pasciuto e dall'abbigliamento sfarzoso, sta mostrando i muscoli di uno schiavo dalla pelle scura e dalla lunga barba. La folla lancia grida di compiacimento rispondendo agli stimoli del banditore che, con maturata esperienza, sa come pilotare il gradimento della gente. Su di un palchetto laterale e in prima fila i possibili acquirenti osservano le merci, facendo di tanto in tanto impercettibili cenni captati unicamente dal banditore.
Osservo meglio la piazza alla ricerca di un obiettivo.
Vicino a palchetto una donna robusta e paffuta sfoggia pesanti gioielli, in netto contrasto con l'abbigliamento quasi inesistente. Bersaglio facile se non fosse per la massiccia guardia del corpo accanto a lei.
Faccio vagare lo sguardo.
Due uomini con pesanti sacchetti legati alla vita si dirigono verso una nave al limite del molo. Le lame al loro fianco e il modo in cui si muovono mi fanno capire che non sono nobili dalle mani lisce, ma soldati abituati alla guerra. Troppo rischioso, scartati.
Velocemente mi infilo in un piccolo bazaar a due piani. Con un cenno saluto Malik, il proprietario, e mi dirigo al piano superiore, arrivando alla finestra che dà sulla piazza. Mi prendo tutto il tempo necessario. La fiera durerà tutta la giornata per concludersi oltre il tramonto quando, sotto la luce delle torce piene di prezioso olio di bandur, le navi salperanno e i mercanti torneranno alle loro case. La giornata comincia a farsi calda, la sabbia comincia a mischiarsi al sudore. Le dame impugnano i loro ventagli tentando di placare l'arsura, invano. Servi seminudi porgono bacili di acqua fresca e panni puliti agli occupanti del palco. Dalla mia posizione vedo tra la folla un fiore nel deserto. Una figura si muove tra la calca come acqua tra le fessure nella roccia. Sembra scivolare senza mai urtare nessuno e senza mai fermarsi. Un turbante bianco le ricopre il volto, nascondendone i lineamenti. Vedo quell'uomo passare accanto ai due militari che avevo puntato precedentemente e vedo svanire le loro sacche senza che loro si accorgano di nulla. Vedo la donna vicino al palco venire alleggerita dal peso dei suoi gioielli senza batter ciglio.
Vedo tutto questo e mi accorgo di essere rimasto a bocca aperta. Senza nemmeno pensarci mi metto a correre per raggiungere quello che senza dubbio è il miglior ladro che abbia mai visto in azione. Quando sono a pochi metri da lui, mi nota. Non saprei dire come, non mi guarda nemmeno, ma so che si è accorto di me. Si dirige verso il limitare della piazza sempre con il suo passo da acqua-tra-le-rocce mentre io mi ritrovo a dovermi fare largo a spintoni. Mi sta distanziando. Più mi affretto e più mi sento bloccato, schiacciato tra i corpi della folla festante. Il caldo e la situazione mi fanno montare la rabbia. Colpisco con un calcio dietro al ginocchio di un vecchietto di fronte a me, facendolo cadere a terra con il sacco che porta in spalla. Saltandolo guadagno un po' di metri tra le imprecazioni del vecchio e di quelli a cui è franato addosso. Vedo sopra la folla il suo turbante bianco. Mi affretto spingendo ancor di più. Una ventata di aria fresca mi fa capire di essere fuori dalla calca. Mi guardo intorno alla ricerca di un suo segno, la sua andatura, il suo copricapo. Niente. L'ho perso. Mentre mi dirigo sconsolato verso il buco che chiamo casa con la testa piena di interrogativi, sento dietro di me la voce di una donna che grida al furto...


TO BE CONTINUED...

giovedì 20 gennaio 2011

La Ricetta del Treno

Un pizzico di sudore di chi è in ritardo
Una manciata di sigarette fumate al finestrino
La puzza dell'imbottitura marcia dei sedili
Un accenno di odore dei freni quasi consumati
Bollire nei pensieri tristi di chi lascia un luogo amato
E nei pensieri felici di chi sa che incontrerà una persona cara
Il tutto lasciato riposare nella noia della routine quotidiana.








Esercizio di Novembre '09 fatto alla Scuola Comics.

Il Mostro

Il mostro ne voleva di più, sempre di più. Tirava le catene per attirarlo sempre più vicino. Non poteva resister, non poteva. Il mostro aveva fame. Allora Kyle si sedette e, smanettando sulla tastiera, lo nutrì. Foto, canzoni, commenti. Ecco di cosa ci cibava. E più Kyle, e quelli come lui, passavano del tempo dentro il mostro, più anelli aggiungevano alle loro catene. Un circolo vizioso dal quale era impossibile uscire. Kyle era consapevole di essere un  succube me, non riusciva, non riusciva a staccarsi. Osservava impotente il mostro attirare a sé altre prede. Come quei pesci che attirano la loro cena con i loro organi luminosi in un mondo fatto di oscurità. E quel che era peggio, era sapere che lo stava usando per conquistarne altri, lasciandoli isolati, lì nel mondo reale. E a loro volta si isolavano quelli che dentro c'erano già. Schiavi. Ecco cosa erano. Fino a quel giorno. Sua madre entrò in camera sua, cosa che non osava più fare da tempo, brandendo la mazza da baseball del padre. Kyle capì troppo tardi cosa volesse fare, e tentò inutilmente di frapporsi. Un colpo violentissimo fece esplodere lo schermo liberandolo dalle catene. 
Urlò.




Esercizio di Novembre '09 fatto alla Scuola di Comics.

Errori&Linguacce

E' morto Michael Jackson, l'inventore del moonwalk. Lui sulla luna ci era sbarcato già. E' morto e per me è stato un trauma, una cosa inaspettata. Mi è venuto a mancare un pilastro del mondo che conoscevo. Un pilastro grande e solido che era lì, come Jordan in difesa. Come, come fu Gassman per i miei nonni. Gassman anche lui simbolo di qualcosa di bello che se ne è andato. Perché ti dava cose che andavano oltre il prezzo del biglietto, cose che ricorderai sempre per quanto piccole possano essere. Infatti lo ricorderò più come padrino mafioso al fianco del figlio che per altri film. Capolavori dicono tutti. Una cosa che solo i grandi ti sanno dare. Come un altro Michael, sempre Jordan. Tutti ricordano i tiri allo scadere, le palle rubate, le schiacciate in volo ma, solo pochi sanno apprezzare la linguaccia di un quarantunenne che sbaglia quella che sarà la sua ultima schiacciata in un All Star Game.Perché a volte gli errori valgono più dei capolavori. Come un a tetta sfuggita nel Superbowl. O una lettera sul mondo impazzito, di chi, a 91 anni dal mondo è stato tradito.




Tratto da un esercizio di Gennaio fatto alla Scuola di Comics.